Jobs Act, dopo tre anni ecco che cosa ha funzionato e cosa no

Dopo tre anni dalla sua nascita, cosa resta del Jobs Act? E soprattutto quali tra le politiche per il lavoro approvate dal governo Renzi a fine 2014 hanno funzionato?

I principali interventi di politica economica previsti dal Jobs Act erano due: l’introduzione del contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti a tempo indeterminato e una forte decontribuzione fiscale (fino a 24 mila euro in tre anni) per ogni assunto a tempo indeterminato per i successivi tre anni.

Degli effetti degli interventi sul mercato del lavoro si è molto parlato. A livello aggregato, il periodo del Jobs Act (2015-2016 e 2017) è stato un triennio con notevole crescita degli occupati. L’Istat tra il 2015 e il 2017 ha conteggiato 800 mila posti di lavoro in più. Molti osservatori hanno notato che nel 2017 la crescita degli occupati è però avvenuta principalmente grazie ai posti di lavoro a tempo determinato, saliti in un anno di 340 mila unità.

In effetti, fanno notare il professor Tito Boeri, presidente dell’Inps e Pietro Garibaldi, professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Torino su lavoce.info, il nuovo contratto a tutele crescenti ha reso più flessibili le assunzioni e i licenziamenti delle imprese con più di 15 dipendenti, mentre ha lasciato pressoché invariata la situazione per le imprese più piccole.

Uno studio dell’Inps ha analizzato gli effetti del nuovo contratto tra il 2015 e il 2017 selezionando tutte le imprese che tra gennaio 2013 e dicembre 2016 sono entrate almeno una volta nella fascia tra 10 e 20 dipendenti. In tutto si tratta di circa 220 mila imprese. Sotto la lente sono finite anche le carriere lavorative di tutti i 6,2 milioni di lavoratori impiegati in queste imprese.

Prima e dopo il marzo 2015, quando il contratto a tutele crescenti è stato introdotto, la situazione è cambiata in maniera significativa. Innanzitutto, il numero delle imprese con più di 15 addetti è passato da 10 mila prima della riforma a circa 12 mila a partire dal mese in cui è entrata in vigore la riforma e nei 15 mesi dopo la sua introduzione, anche se dopo il dicembre 2016 – quando la decontribuzione è stata fortemente ridotta – le assunzioni hanno subito una decelerazione.

Dati che trovano conferma anche nell’analisi di Paolo Sestino e Eliana Viviano dal titolo Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market pubblicata da Banca d’Italia.

Le imprese a cavallo dei 15 dipendenti, inoltre, dopo il marzo del 2015 hanno aumentato le assunzioni a tempo indeterminato del 50% rispetto a quelle più piccole. E lo stesso vale anche per le conversioni dei contratti a termine in contratti a tutele crescenti. Non è tutto. Anche i licenziamenti, dopo la cancellazione dell’articolo 18, sono aumentati di circa il 50% tra le imprese più grandi rispetto alle piccole.

E proprio su questo punto è intervenuta anche la Corte Costituzionale che con una recente sentenza ha riportato indietro le lancette a prima di marzo 2015. La misura, confermata anche nel Decreto Dignità che ne aveva solo esteso l’importo, prevedeva un indennizzo automatico in caso di licenziamento illegittimo in base all’anzianità di servizio. La Consulta, invece, spiega che questa somma dev’essere invece determinata dal giudice caso per caso, tendendo conto anche di altri parametri. Insomma, tutto da rifare.